mercoledì 25 ottobre 2017

La Glass House di Philip Johnson - una "scatola" di vetro immersa nella natura



La Glass House è opera del famosissimo  architetto americano Philip Cortelyou Johnsonuno tra i più influenti designer e progettisti del ventesimo secolo. 
Il progetto è stato realizzato nel lontano 1949 e pensato come esperimento estetico; una dimora che nasceva nel bel mezzo della natura del New Canaan e caratterizzata dalla sola purezza del vetro


Un’opera innovativa per l'epoca e sicuramente  sublime nella sua semplicità, minimal ma anche calda ed accogliente come si richiede ad una vera e propria abitazione


Quando pensiamo alle case del futuro sicuramente ci vengono in mente la robotica, il candore, la ricercatezza della perfetta armonia tra spazio e ambiente dove vivere, insomma dimore dal design pulito e caldo, raffinato e minimal. Alla mente balzano immagini quindi legate alle grandi città, pensiamo al futuro e a come le case saranno. Difficile pensare a una casa immersa nel bel mezzo della natura, difficile collocare tra queste la Glass House di Philip Johnson, un capolavoro post-moderno di semplicità e ricercatezza al tempo stesso.


Glass House, letteralmente casa di vetro: mai nome fu più identificativo. L’architetto americano post-modernista ha pensato, e realizzato, una casa fatta quasi interamente di vetro ed immersa in una tenuta di 47 acri  nel Connecticut. 
Questa particolare dimora avanguardistica è in effetti un perfetto esempio di un progetto minimal. Il vetro si incontra con i pilastri di acciaio nero e mancano completamente le mura interne. 

A proposito di interni, la Glass House ha solo uno spazio che ha la sua privacy e si tratta, ovviamente, del bagno, contenuto nel cilindro, che potete vedere nella piantina; per il resto è stata concepita come un unico ambiente. Allo stesso modo anche i mobili mantengono questa concezione, l’interior design è davvero essenziale e minimal.





La Glass House è una terrazza sulla natura, si affaccia sul verde della sua grande tenut. La Glass House attira da sempre milioni di curiosi e amanti del design tanto che nel 2007 furono aperte le porte al pubblico e sono state realizzate delle visite guidate grazie al National Trust for Historic Preservation. 
Vi lasciamo con un video sulla celebre Glass House di Philip Johnson:

lunedì 16 ottobre 2017

Villa Malaparte a Capri - un capolavoro del '900





“V’era a Capri, nella parte più selvaggia, più solitaria, più drammatica, in quella parte tutta volta a mezzogiorno e ad oriente, dove l’Isola da umana diventa feroce, dove la natura si esprime con una forza incomparabile, e crudele, un promontorio di straordinaria purezza di linee, avventato in mare come un artiglio di roccia…” 

Con queste parole Curzio Malaparte descriveva l’ispirazione per quello che sarebbe diventato un prodigio dell’architettura di inizio '900: la Casa come me o anche conosciuta come Casa Malaparte, costruita nel 1942.

Nel 1936 Curzio Malaparte è ospite a Capri del medico e scrittore svedese Axel Munthe.
Dopo una passeggiata a Capo Massullo ebbe la visione e l’ispirazione di Casa Malaparte e si attivò per acquistare questo promontorio di roccia da un pescatore.  Mediante le sue conoscenze e simpatie per il partito Fascista di cui fu anche in parte fondatore si attivò presso le autorità locali per ottenere i permessi ci costruzione dell’abitazione e della strada per arrivarvi. 


Malaparte scelse, per il progetto, Adalberto Libera, l’architetto del palazzo dell’E.U.R a Roma, uno dei pionieri del razionalismo italiano, molto conosciuto per le sue idee futuriste; invece per la costruzione si affidò al maestro muratore caprese Adolfo Amitrano, “il migliore, il più onesto, il più intelligente, il più probo, fra quanti abbia mai conosciuti”. In realtà pare che il progetto originario di Libera fosse in linea con la tipica architettura caprese e che il risultato finale sia stato in gran parte frutto delle intuizioni visionarie dello stesso Malaparte.


A prima vista assomiglia più ad un immenso mattone caduto sulla roccia che ad un’abitazione. Ma poi, a ben guardare, la struttura è in assoluta sintonia con la natura che la circonda, e finisce col sembrare una naturale elevazione del promontorio.
I problemi da risolvere non erano pochi, e non erano facili. A cominciare dall’orientamento poiché c’era da scegliere fra due venti, il greco e lo scirocco, che vi battono spesso. E io preferii affrontarli col gomito, per così dire, orientando la casa con gli angoli volti a tagliare i quattro punti cardinali. In quanto alla sua forma, essa mi era dettata dall’andamento della roccia, dalla sua struttura, dalla sua pendenza, dal rapporto dei suoi sessanta metri di lunghezza con i suoi dodici metri di larghezza. La feci lunga, stretta dieci metri, lunga 54. E poiché, a un certo punto, dove la roccia si innesta al monte, la rupe si incurva, si abbandona, formando come una specie di collo esile, io qui gettai una scalinata, che dall’orlo superiore della terrazza scende a triangolo.
Nel 1938 Capo Massullo è suo. Una roccia inaccessibile, a picco su una baia verde e turchese. Tutto intorno solo il mare, la roccia e la natura selvaggia. Un luogo unico al mondo. I lavori durarono quattro anni, dal 1938 al 1942; all’esterno la casa si collega alla roccia con una grande scalinata strombata di uno stile vagamente Inca che sale fino al tetto-solarium pavimentato in cotto. Sul grande tetto piatto che copre interamente il secondo piano non ci sono più le volte ma c’è un piccolo muro bianco a forma di falce, una vela che protegge lo scrittore dallo sguardo dei curiosi.





Al secondo piano il vasto soggiorno ha il pavimento in basalto grigio come un’antica strada romana, e quattro grandi finestre alte come i muri si aprono sullo splendido paesaggio. Non ci sono infissi, ma ogni apertura ha una cornice di legno di noce. Un vetro montato sul fondo del focolare del camino lascia intravedere il mare attraverso le fiamme, e dall’esterno, se la casa è abitata, si vede il fuoco.


In fondo a tutto, a picco sul mare, lo studio dello scrittore. La decorazione di ogni piastrella del pavimento è una lira d’Orfeo disegnata da Alberto Savinio, e Malaparte amava dire “qui da me si cammina sulle lire”. Lo studio ha tre finestre con tre diverse vedute: da un lato i Faraglioni, dall’altro la Punta della Campanella e dal terzo l’infinito dell’orizzonte.

Fin da subito le reazioni a quella “strana” casa furono varie. La villa, che rappresenta una vigorosa anticipazione del razionalismo italiano, scatena subito la reazione degli architetti e degli storici dell’architettura. Qualcuno parla di “un prodotto rigido ed in collera con la natura”, qualcun altro “di un relitto rimasto sulla roccia dopo il riflusso delle onde”. C’è chi associa la casa a “una barca arcaica e senza tempo in equilibrio tra architettura mediterranea e giochi d’astrazione”.
E c’é chi ne parla, invece, come un oggetto in fusione perfetta col paesaggio.

Casa Malaparte seduce perché é la materializzazione della personalità di uno scrittore inquietante che ancora oggi fa parlare di se. Perché é il risultato di citazioni letterarie, di memorie politiche, di frammenti di vita. Perché è un architettura che è anche l’autobiografia di un personaggio, il luogo dei suoi ricordi, il manifesto della sua ideologia.
Il suo fascino è arricchito dalla lunga sequenza di ospiti che, nei decenni, vi hanno soggiornato, Albert Camus, Moravia, Picasso, Togliatti e altri.
Il regista Jean-Luc Godard la scelse per ambientare un episodio del suo film: Il Disprezzo.


Purtroppo dopo la morte di Malaparte, una serie di dispute legali tra i discendenti e gli eredi designati dall’autore ha ottenuto come unico risultato la chiusura al pubblico e l’incuria della villa; ma nella memoria collettiva resta ben salda l’immagine e il fascino esercitato da questo luogo di passione  e pensiero. Il festival di Cannes del Ha scelto proprio uno scorcio di questa casa per il suo manifesto nel 2016 e, di sicuro, la personalità di Malaparte si è fusa con punta Massullo, insinuata come una radice di un arbusto che spacca e trattiene al tempo  nella roccia. Infatti tutoggi i capresi, chiamano quest’angolo impervio e selvaggio  semplicemente: Malaparte.


lunedì 9 ottobre 2017

La casa immersa nella natura nel centro di Mumbai dell'archistar Bijoy Jain





I tratti che distinguono e caratterizzano lo stile dell'architetto indiano Bijoy Jain fondatore dello Studio Mumbai Tanto, sono senza dubbio il verde, l'utilizzo dei materiali locali, le poche decorazioni e un equilibrio inconfondibile tra la natura e la qualità e il rispetto del progetto.   

Tutte caratteristiche distintive che possiamo trovare nella visione d'insieme della sua casa di Mumbai, ideata per evadere dalla frenetica vita che lo porta in giro per il mondo per vari progetti.





Un’oasi nel centro di Mumbai, costruita all’interno di una comunità di artigiani, coi quali l’architetto collabora per le sue opere e progettazioni e i suoi cani cani che sono più di ventitré.

In questa abitazione che sembra essere progettata in divenire per quanto è spontanea e semplice, ogni dettaglio sembra lasciato al caso ma tutto ha in realtà un senso ed un suo preciso equilibrio architettonico. 

La facciata bianca, a simboleggiare il colore della purezza ma anche della semplicità, si sposa perfettamente con i materiali usati per gli infissi, materiali tutti derivati dagli alberi delle piantagioni locali come invece le tegole della casa, lavorate in ceramica, che sono interamente prodotte da uno degli artigiani della comunità suddetta dove nasce la casa .
L’ottimizzazione delle risorse del luogo in cui si costruisce e il rispetto del paesaggio sono uno degli aspetti fondatori e portati dello Studio Mumbai. Un dialogo che in questi anni si è dimostrato fondamentale nel dibattito sull'urbanistica del paese e fondamentale per integrare al meglio il progetto umano a quel che c’era prima, quella  che è sempre stata la protagonista assoluta: madre natura.

Dal portico ricco di sedute rivestite di tessuti totalmente organici come sete, lini e cotoni e tutti dalle nuance chiarissime, ci si sposta nella stanza principale della casa, in cui la luce vivida delle vetrate poste sopra gli infissi spezza la staticità e il minimalismo degli interni, anche in questo caso nello spazio interno ogni angolo è colmo di richiami al semplice e complesso mondo della natura. 


Legno, ceramica e cotone convivono in un ambiente quasi povero, scarno di decorazioni ma dall’anima ricca.

Il superfluo è lasciato da parte al fine di valorizzare la funzionalità delle stanze, perfette per momenti di convivialità e riposo. Una scala, a ridosso del muro, porta al piano superiore dove un ventilatore a soffitto fa da guardiano alla camere da letto, accompagnato dalle travi a vista del tetto. 


Fuori si scopre una piscina meravigliosa, un gioiello nonché l’unico vero grande lusso di una casa apparentemente semplicissima e  minimal. 
Tutto attorno, sdraio e alberi godono del clima indiano, caldo e soleggiato, creando un’atmosfera in cui divino e vita quotidiana sembrano coesistere perfettamente.

lunedì 2 ottobre 2017

Fondazione Ca' Romanino - La casa delle idee di Giancarlo De Carlo



“L’architetto è la penna del suo committente”, questo pensava Giancarlo De Carlo, architetto italiano impegnato in progetti per luoghi della collettività: quartieri residenziali, abitazioni, scuole, residenze universitarie tanto che i suoi committenti potevano essere operai, sia gli abitanti dell’isoletta di Burano, come gli studenti di quello che è considerato il campus universitario di Urbino. L'area ora è dedicata a Carlo Bo che ne fu rettore e che invitò, nel 1954, proprio Giancarlo De Carlo a progettare il campus, per tentare di ridare dignità all’antica città ducale ormai ricca solo del suo passato. “
Così ebbe inizio un’inedita geografia di amicizie, nate  durante l’epoca della Resistenza, epoca contagiata anche dal grande entusiasmo presente per gli anni della ricostruzione; un periodo che ha dato vita  all'intrecciarsi di scambi e relazioni tra personaggi della nostra architetturasenza dubbio eccezionali: Vittorio Sereni, Albe Steiner, Antonio Cederna, Elio Vittorini, Carlo Bo, Livio Sichirollo, e Sonia Morra
Furono loro ad invitare Giancarlo De Carlo, già impegnato nel piano urbanistico della città di Urbino, a progettare una casa su di un colle nei pressi della città ducale. Un’architettura sospesa nell’aria ma ben ancorata alla terra, un luogo dove condividere i pensieri, le idee, i progetti, le utopie che hanno acceso gli animi all’epoca dei grandi sogni del rinnovamento del design italiano.


Nel 1968 la casa è pronta. 
Scavata all’interno della collina, le piante secolari diventano parte integrante della costruzione. De Carlo crea un dialogo, quasi una sfida con la natura. Il paesaggio è catturato da numerose, ampie finestre e irrompe con forza in tutte le stanze; ma anche la natura sembra avere un rispetto reverenziale per la casa che s’immerge in essa senza disturbarla. E poi, i camminamenti in calcestruzzo che regalano il piacere della scoperta del paesaggio in quota. 


Una scala nascosta accanto alla cantina, apparentemente inutile, non si percepisce dove possa portare, invita al piano superiore e consente un giro della casa, quasi un passaggio sulle mura di un castello. Percorrendo le “mura” si torna in casa dall’alto e il gioco delle scale e scalette a pioli con i corrimano rosso lacca, invitano a un tour in nito. Si rischia di perdere l’orientamento, tra piani sfalsati e raddoppiati, e rampe nascoste. 


Sembra quasi il percorso nella stiva di una nave, si sale e si scende e si guarda attraverso le fenditure attraverso le pareti di mattoni e i muri. Di notte quando si riposa sdraiati sui letti delle stanze degli ospiti si vedono dai lucernari solo le stelle, come appunto da una barca.
Il fulcro della casa, quello che rimane indimenticabile, l’elemento che De Carlo ha pensato per creare una sorta di calore architettonico, è la presenza di un corpo sovradimensionato, che  non è solo un elemento ornamentale ma indispensabile perchè fonte di calore: il camino a cilindro rosso attraversa il soggiorno fino alla doppia altezza della struttura e congiunge la zona  degli incontri e delle conversazioni alla parte alta, dedicata alle cene e allo studio, racchiuso da un segno curvo, come a isolarlo con un gesto impercettibile al resto del mondo.


Per un architetto il problema di progettare gli involucri dei suoi spazi è a breve termine, ma è a lungo termine il problema di realizzare la trasformazione degli spazi in luoghi”. 
Così pensava Giancarlo De Carlo. 
E ora, in questo luogo è sorta la Fondazione Ca’ Romanino per realizzare un laboratorio di idee che ospiti in questo suo ambiente privilegiato persone e progetti.